L’ex calcio del Duemila

Roberto Beccantini28 giugno 2018

Nel 2010 il Ghana arrivò a una «parata» di Suarez dalla semifinale. Nel 2014 ce n’erano due, negli ottavi: Algeria e Nigeria. Uscirono lì. Nel mondo, l’Africa è ferma ai quarti: Camerun, Senegal e il Ghana di cui sopra. Ed era dal 1982 che non ne portava almeno una oltre la fase a gironi.

Stiamo parlando di quello che definimmo il calcio del Duemila. E’ arrivato il Duemila, non è arrivata l’Africa. Che gli altri continenti continuano a saccheggiare – Europa in testa – offrendo in cambio piani Marshall di dubbia legalità. A ciò si aggiunga la miscela esplosiva di stati tali solo sulle mappe e di regimi politici che, invece di servire lo sport, lo usano. Eppure il primo Pallone d’oro extraeuropeo fu George Weah, oggi presidente della Liberia: giocava nel Milan, era il 1995.

L’ultimo a cadere, in Russia, è stato il Senegal. Aveva gli ottavi in tasca, ha perso con la Colombia dopo averla spesso controllata. E’ uscito per una storia di cartellini che ha premiato il Giappone. La parità assoluta – di punti, di differenza reti, di gol segnati, del confronto diretto – rendeva indispensabile, anche se brutale, un criterio dirimente. Pur di evitare il sorteggio, è stato scelto il fair play (?).

Il Senegal aveva battuto la Polonia (2-1) e pareggiato con il Giappone (2-2). I rimpianti penso che siano concentrati, soprattutto, nella doppia rimonta subìta dagli asiatici e nel rigorino difficile da assegnare – su Mané, contro i cafeteros – ma ancora più difficile da ritirare. L’infortunio di James Rodriguez sembrava un piccolo risarcimento; la schiacciata di Mina, un pivottone di quasi due metri, è stata l’ultima, fatale, distrazione.

A chiamarla «solo» iella, l’Africa corre il rischio di restare sempre il calcio che verrà. E non lo merita.

Imperfetto ma sa soffrire

Roberto Beccantini27 giugno 2018

Del Brasile si dice sempre che non gioca di squadra, che vince grazie ai singoli. E’ successo tante volte, ma non mi pare che stia succedendo in questo Mondiale. Anzi. Ha il portiere (Alisson), una coppia difensiva di navigata malizia (Miranda-Thiago Silva), due lucchetti in mezzo (Casemiro-Paulinho) più Coutinho, finora il «dieci» più brillante, Gabriel Jesus (così così) e il Neymar sempre in volo, metaforicamente e no, un po’ ballerino e un po’ libertino.

La Serbia era un avversario molto fisico, in perenne altalena fra le potenzialità di Milinkovic-Savic e le pause di Ljajic. Ha avuto le sue occasioni, si è presa i suoi rischi ma non dispone del serbatoio di talento che, viceversa, bacia la Croazia. Non le mancano i Mandzukic: le mancano i Modric.

La partita non poteva che essere di lotta, vista la tonnara di centrocampo, prigione dalla quale Coutinho ha fatto evadere Paulinho. Il raddoppio è venuto su corner di Neymar e smash aereo di Thiago Silva.

Mi metto nei panni di Tite: da Dani Alves e Marcelo a Fagner e Filipe Luis il salto non può essere innocuo. Nel calcio moderno, le fasce sono cruciali: in assoluto e, soprattutto, in relazione al traffico del centro. Aiutano ad allargare e snellire l’azione, per questo servono piedi che non siano solo da terzini d’antan, ma molto di più: come, appunto, gli alluci dei titolari, mezzali parcheggiate in corsia. E non trascurate il k.o. del Douglas Costa che aveva aperto la scatola di Costa Rica, un’ala alla quale Allegri ha allungato il campo (o che ha allontanato dalla porta: busta numero uno, busta numero due, scegliete).

In un Mondiale senza padroni, e con i campioni della Germania già fuori, il Brasile ha dimostrato di saper soffrire. Non è un’esclusiva, ma aiuta a crescere.

Scoppiati

Roberto Beccantini27 giugno 2018

Suvvia, ditemi voi se Germania-Corea del Sud non è stata un inno al calcio, all’unico sport che, giocandosi con i piedi, può trasformare un assedio in qualcosa di clamorosamente corretto? Nel basket, che si gioca con le mani e non contempla i portieri, i tedeschi avrebbero vinto, come minimo, di venti punti. Invece: Corea del Sud due, Germania zero.

E vai, allora, con la retorica che nel destino dei Grandi c’è sempre una Corea, da Middlesbrough a Kazan; con l’elogio dei «ridolini» (?) che, pur eliminati, hanno dato tutto difendendo ogni sentiero come se fosse questione di vita o di morte (e invece era solo questione di orgoglio). Tra parentesi, in un Mondiale che sta sancendo la crisi del ruolo, la Corea ha dimostrato di aver un signor portiere, l’allampanato Jo.
E la Germania? Avevamo appena finito di celebrarne la volontà feroce che l’aveva spinta, tra meriti e puntini puntini, oltre la Svezia. «I tedeschi non muoiono mai» è uno slogan che ha fatto storia. E con un ricco dossier a supporto. Questa volta non sono morti: sono scoppiati. Gli avversari correvano, loro camminavano. E senza centravanti, hai voglia di raccogliere le briciole che la cronaca, distratta, può lasciarti. I gol di Kim e Son (con Neuer lontano lontano) sono piombati alla fine dell’agonia, quando la larga vittoria della Svezia (sì, la Svezia senza Ibrahimovic) li stava spingendo alla spasmodica caccia di un gol qualsiasi.

Adesso, naturalmente, il modello tedesco sarà schiaffeggiato e irriso, esautorato e vilipeso. Difficile salvarne qualcuno, facile esecrarli tutti: il lento Khedira, lo sterile Ozil, l’impreciso Kroos (proprio lui, l’angelo salvatore), il grezzo Gomez, l’inutile Muller, il panoramico Reus. Mai successo che la Germania uscisse al primo turno di un Mondiale. Ci sarebbe voluta una goccia di Messi, almeno. Da tedeschi, sono usciti tutti insieme.